La morsa della crisi energetica si fa sentire sempre di più, sconvolgendo la vita di famiglie e imprese. In quale contesto si trova davvero l’Italia? Quali sono le mosse che il nuovo governo potrebbe intraprendere per porre rimedio a questa grave situazione? E cosa accadrà a partire dal 1° ottobre, data di inizio della “stagione termica”?
A tali quesiti ha risposto, in un’intervista rilasciata a ilsussidiario.net, Michele Marsiglia, presidente di FederPetroli Italia.
Marsiglia ci dice che il gas, al pari del petrolio, non scarseggia affatto, anzi è disponibile in ampie quantità, anche se sarà necessario evitare di ricorrere alle scorte in quanto si tratta di riserve strategiche da utilizzarsi in caso di emergenze o incidenti come quello recentemente occorso al gasdotto Nord Stream 1. Potrebbe apparire una precauzione eccessiva, in quanto noi non siamo serviti dal gasdotto in oggetto, ma non dobbiamo dimenticare che incidenti potrebbero verificarsi ad esempio in Libia e Algeria, nostri fornitori che non presentano una situazione politica stabile.
In questo contesto non è facile comprendere perché, a fronte di un’ampia disponibilità di gas, le utilities che acquisiscono il prodotto dai grandi fornitori per poi rivenderlo ai clienti si trovino in difficoltà. La risposta, in realtà, è semplice: non è il gas a scarseggiare, ma la liquidità. In questo momento, per avere la stessa quantità di gas, le utilities devono pagare un prezzo anche sei volte maggiore rispetto allo stesso periodo nel 2021 e non tutte le società dispongono della liquidità necessaria. Risulta per loro arduo anche chiedere l’aiuto delle banche, poiché nessuno, in questo momento, può assicurare che le utilities richiedenti i prestiti verranno a loro volta pagate dai clienti. Questo problema interessa sia le società di grandi dimensioni che quelle medio-piccole che, per ridurre l’esposizione al rischio di morosità dei clienti, in alcuni casi hanno deciso di stipulare contratti di breve durata.
È chiaro, dunque, che le imprese sono terribilmente esposte alla crisi in corso, anche perché, se non riusciranno a ottenere un contratto di fornitura, si incammineranno su un percorso segnato, che prevede dapprima la riduzione delle erogazioni a un livello minimo garantito e, successivamente, l’interruzione totale delle stesse. Per questo, alcune imprese hanno già diminuito le operazioni e non è escluso che le difficoltà che devono affrontare le costringano a breve alla totale chiusura degli impianti. “Da quattro mesi a questa parte – continua Marsiglia – alcune società stanno lavorando in perdita ma, senza energia, non sarebbe nemmeno possibile operare in queste condizioni”.
Speculazione è una parola che sempre più sentiamo associare alla crisi energetica e se parliamo di gas il pensiero va al TTF, l’exchange olandese di riferimento per il prezzo del gas.
Le oscillazioni di prezzo ci sono, questo è innegabile, ma Marsiglia spiega che dipendono da un mix di fattori tra cui le variabili finanziarie determinate dall’economia di mercato e dalle mosse delle società che comprano la materia prima perché ne hanno necessità e di quelle che operano con coperture finanziarie sfruttando i derivati. A tutto questo dobbiamo aggiungere le tensioni geopolitiche ed episodi come il recente incidente presso il gasdotto Nord Stream 1 che ha contribuito all’aumento dei prezzi presso il TTF. “In più di un’occasione le oscillazioni di prezzo sono state determinate da dichiarazioni in arrivo, ad esempio, da autorevoli rappresentanti della UE – afferma Marsiglia – Dovremmo vietare tali comunicazioni? La realtà è che le aziende più strutturate possono fare operazioni di copertura finanziaria per tutelarsi da queste oscillazioni, ma le famiglie o le piccole imprese no”.
Marsiglia afferma che la politica italiana dovrebbe prendere come riferimento la Gran Bretagna, dove la Premier Liz Truss ha imposto un tetto massimo alle bollette di famiglie e imprese valido sino al 2024, con il differenziale necessario per raggiungere il prezzo di mercato che verrà coperto dallo Stato con 120 miliardi di sterline. Secondo Marsiglia l’Italia potrebbe reperire cifre simili dal PNRR o dai fondi europei. “Meglio pagare oggi le bollette e semmai tra qualche anno un po’ di tasse in più piuttosto – conclude il Presidente di FederPetroli Italia – che non pagare le bollette oggi, condannare a morte le imprese, mettere le famiglie in crisi e vedere calare poi il gettito fiscale, che poi è la strada verso cui ci siamo messi, che farà perdere competitività al Paese e determinerà una grossa crisi”.
La giornata del 5 ottobre è destinata a rimanere nella storia del mercato petrolifero mondiale, con i membri della OPEC+ che hanno deciso di ridurre la produzione di 2 milioni di barili giornalieri rispetto al target previsto: si tratta del più grande taglio alla produzione dopo l’intervento del 2020 per contenere gli effetti della pandemia. La decisione, secondo le notizie in arrivo a mercato, è stata presa al fine di contrastare il calo dei prezzi del barile indotto dal progressivo indebolirsi dell’economia globale.
L’entità della riduzione ha spaventato gli operatori e ha innescato sin da subito un forte aumento nelle quotazioni del petrolio e un calo nei mercati azionari.
La decisione di OPEC+ rischia di aggiungere ulteriore tensione in un’economia internazionale che sta già lottando contro l’inflazione e il caro materie prime ed energia. Il taglio alla produzione, inoltre, potrebbe innescare una reazione da parte degli USA, poiché Washington sta da tempo insistendo per un intervento in senso opposto, ovvero un aumento della produzione in grado di abbattere il costo del barile e, di conseguenza, il prezzo del carburante negli Stati Uniti in vista delle elezioni di medio termine di novembre.
Tuttavia gli analisti suggeriscono cautela. Poiché, infatti, numerosi produttori appartenenti alla coalizione non sono in grado già ora di raggiungere l’obiettivo assegnato, l’impatto sul mercato potrebbe rivelarsi più contenuto rispetto alle attese. Amir Hossein Zamaninia, Governatore dell’OPEC per l’Iran, ha dichiarato che il taglio sarà effettuato secondo le linee guida utilizzate nei precedenti meeting. Bloomberg stima che solamente 8 Paesi saranno chiamati a ridurre realmente la produzione e che la contrazione ammonterà a circa 880.000 barili giornalieri.
Sempre mercoledì 5 ottobre, prima che la decisone venisse comunicata ai mercati, i funzionari USA avevano invano contattato le loro controparti nel Golfo tentando di impedire il taglio. Alcuni operatori di settore hanno indicato che è in fase di studio l’effetto che avrebbe sui costi dei carburanti negli Stati Uniti un divieto alle esportazioni di benzina e di altri raffinati: un’idea controversa, secondo alcuni, ma che sta prendendo piede all’interno dell’amministrazione Biden. “Il Presidente è deluso dalla miope decisione dell’Opec+ di tagliare le quote di produzione mentre l’economia mondiale fa i conti con le conseguenze negative dell’invasione dell’Ucraina da parte di Putin”. Lo ha affermato la Casa Bianca, sottolineando che verrà consultato il Congresso sugli strumenti per ridurre il controllo dell’Opec+ sui prezzi dell’energia.
Le precipitazioni che hanno attinto il Sud-Est del Brasile sono state ben accolte dai coltivatori locali, in quanto favoriranno lo sviluppo di numerosi prodotti, tra cui soia e mais, e inoltre agevoleranno la fioritura del caffè: questo è quanto afferma Marco Antônio dos Santos, meteorologo presso Rural Clima.
Dos Santos sottolinea come il caffè sia tra le coltivazioni che beneficeranno a breve termine dalle precipitazioni mentre, per quanto concerne la canna da zucchero, allo stato attuale le piogge potrebbero rivelarsi un ostacolo, ma saranno di grande aiuto per il raccolto 2023.
In riferimento al caffè, il Cerrado Mineiro sarà raggiunto dalle precipitazioni nel mese di ottobre insieme all’Espirito Santo, maggior produttore di varietà Robusta del Brasile.
Seppur mantenendosi al di sotto dei massimi registrati nella prima decade di febbraio (260,4 USd/lb), i prezzi dell’Arabica si attestano a livelli elevati e a fornire supporto alle quotazioni sono i timori relativi all’offerta globale, con le scorte certificate che, stando ai più recenti dati in arrivo a mercato, si presentano ai livelli più bassi degli ultimi 23 anni.
In base ai dati diffusi dal Conab, le coltivazioni di Arabica daranno alla luce un raccolto pari a 32,4 milioni di sacchi, in aumento di oltre il 3% rispetto al raccolto precedente.
“L’aumento della produzione è stato messo a dura prova dalla precedente carenza di precipitazioni nella fase riproduttiva del prodotto nel corso del 2021, nonché dalle gelate verificatesi tra giugno e luglio dello scorso anno nelle aree dedicate alla coltivazione del caffè di San Paolo, Paraná e Minas Gerais” (Candice Romero Santos, Soprintendente all’Informazione all’Agricoltura presso il Conab).
Per quanto concerne il Robusta, il Conab prevede un nuovo record di produzione, stimato in un volume prossimo ai 18 milioni di sacchi, con un incremento del 10,3% rispetto al raccolto precedente.
Il governo brasiliano ha ammesso che le stime sui raccolti di caffè proposte negli ultimi anni presentano dei problemi e i metodi adottati per formulare le stesse necessitano di miglioramenti al fine di consentire una fotografia migliore della realtà, in quanto i volumi riferiti alla produzione si sono mostrati inferiori alla somma dei consumi locali e delle esportazioni.
I vertici del Conab hanno affermato che, a causa di queste discrepanze, è in corso un processo di revisione dei numeri e della metodologia per le previsioni del raccolto di caffè; da anni le proiezioni Conab sono oggetto di discussioni intense tra gli operatori di settore, che considerano le stesse eccessivamente contenute.
Le società commerciali e gli analisti indipendenti, di solito tendono a fornire stime più elevate: nel 2022, ad esempio, il Conab indica un raccolto di caffè pari a 50,4 milioni di sacchi, mentre il Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti (USDA) prevede 64,3 milioni, Rabobank 63,2 milioni e la società di consulenza Safras&Mercado 58,2 milioni. I commenti dei funzionari Conab sono giunti a mercato dopo che Reuters aveva messo in dubbio le previsioni del governo brasiliano relative a consumi ed esportazioni del Paese, citando un chiaro divario di offerta nel momento in cui i volumi in oggetto vengono confrontati. Nel dettaglio, se si raffrontano i dati relativi al consumo locale più le esportazioni con le proiezioni sui raccolti degli ultimi 5 anni, si registra un deficit di oltre 32 milioni di sacchi: un problema ammesso anche dai funzionari Conab.
I vertici Conab hanno affermato di essere pronti a risolvere il problema, attribuendo lo stesso alle cattive condizioni in cui la struttura è stata rilevata dal governo quattro anni fa. Sempre il Conab ha spiegato che è in corso l’assunzione di personale al fine di rendere maggiormente attendibili le proiezioni sui raccolti e ha sottolineato come la tecnologia satellitare sarà sfruttata al fine di risolvere la situazione.
I prezzi del latte stanno aumentando vertiginosamente e gli incrementi riguardano l’intera filiera produttiva, a partire dai mangimi a base di mais, il cui prezzo risulta in crescita di oltre il 40%, per finire al gasolio e ai prodotti fitosanitari.
L’Italia annovera circa 24.000 stalle e ognuna di queste è stata colpita da una tempesta perfetta i cui effetti si ripercuoteranno inevitabilmente sui consumatori, che potrebbero trovarsi di fronte, entro dicembre, a un prezzo del latte di 2 Euro al litro. A questo proposito, uno studio condotto da Nielsen evidenzia che, dalla primavera 2022 a oggi, il prezzo del latte è aumentato sino a raggiungere una quotazione di 1,8 Euro per litro.
Aziende del calibro di Granarolo e Lactalis hanno lanciato un vero e proprio allarme che sta facendo scalpore: in un comunicato congiunto hanno espresso, infatti, la forte preoccupazione in merito alla corsa dell’inflazione che ormai da un anno affligge l’agroalimentare italiano con particolari ripercussioni sul comparto lattiero-caseario. Le due aziende affermano che si rende improcrastinabile un intervento atto ad evitare conseguenze disastrose per le migliaia di imprese che costruiscono la filiera, con l’energia che rappresenta ormai la prima voce di spesa che le società del settore devono affrontare. “L’inflazione – spiegano Granarolo e Lactalis – ha portato a un aumento di listino del 23-24%, mentre i costi energetici continuano a crescere in misura esponenziale. Chiediamo un provvedimento transitorio per contenere un aumento dell’inflazione scatenato prevalentemente da questioni geopolitiche e da evidenti fenomeni speculativi. Si rende necessario un intervento urgente del Governo”.
L’inflazione interessa con numeri a doppia cifra quasi tutti i centri di costo della filiera. Si va dall’alimentazione degli animali – già in sofferenza a causa della siccità che ha provocato una contrazione nei raccolti e nella produzione e ha incrementato di quasi il 50% il prezzo del latte conferito agli allevatori – al packaging, con il costo di carta e plastica che da mesi si propone in costante aumento.
Inoltre, la folle corsa dei costi energetici delle ultime settimane rende ormai impossibile per le aziende il trasferimento dei rincari al mercato. “L’aumento delle bollette ha generato un impatto devastante sulla nostra organizzazione, che sarebbe stato anche maggiore se non fossimo intervenuti con coperture ad hoc. Parliamo di un +220% di spesa registrato nel 2022 rispetto al 2021 e di una stima di un +90% nel 2023 rispetto al 2022 – afferma Giovanni Pomella, ad di Lactalis in Italia – . Le imprese sono allo stremo”.
Il Presidente di Coldiretti, Ettore Prandini, afferma che è assolutamente prioritario evitare che le aziende italiane diventino preda di società straniere: i crediti d’imposta non bastano, occorre eliminare l’IVA ai consumatori e stabilire un price cap ai prezzi dell’energia per le industrie in quanto, allo stato attuale, 1 impresa italiana su 10 è destinata alla chiusura.
Alla richiesta di Granarolo e Lactalis si è unita anche Confagricoltura, spiegando che la filiera del latte presenta molte differenze rispetto ad altri settori: un forno lo si può spegnere e poi tornare alla produzione dopo mesi, ma con il bestiame non è la stessa cosa e il rischio concreto è che alcuni allevatori siano addirittura costretti ad abbattere i capi.
Le 24.000 stalle attive in Italia producono 2,7 milioni di tonnellate di latte per anno e alimentano una filiera di settore che vale oltre 16 miliardi di Euro e dà lavoro ad oltre 200.000 persone (indotto compreso).
Gli analisti indicano un aumento della produzione nella nuova stagione 2022-2023 che inizia a ottobre. Dopo una stagione 2021-2022 deludente a causa del clima avverso, India e Thailandia stanno recuperando il terreno perso in termini di produzione di zucchero e anche il Brasile guarda alla nuova produzione con la speranza di ottenere risultati migliori dopo un 2021-2022 che si chiuderà con un deficit di circa 1 milione di tonnellate.
Gli analisti, quindi, concordano sul fatto che nella stagione 2022-2023 assisteremo a un aumento della produzione di zucchero da parte dei Paesi asiatici e del Brasile, anche se il clima rimane un’incognita.
L’International Sugar Organization (ISO) ha indicato, nel suo più recente report, un possibile surplus di oltre 5,57 milioni di tonnellate nel 2022-2023, tuttavia alcuni analisti non concordano su questa proiezione e giudicano la stessa molto ottimistica. Andy Duff, strategist presso Rabobank, stima, ad esempio, un surplus non superiore ai 3,5 milioni di tonnellate a fine stagione, sebbene anche lui ammetta che il clima potrebbe ribaltare, in un senso o nell’altro, la previsione.
Lívea Coda, analista specializzato in zucchero ed etanolo presso Hedge Point Global Markets, sottolinea come eventuali condizioni meteorologiche avverse potrebbero portare il bilancio della stagione 2022-2023 in territorio negativo: “Credo in uno scenario neutro, con il bilancio prossimo allo zero. Tuttavia, la presenza del fenomeno atmosferico della Nina potrebbe condurci addirittura verso un deficit”.
Le ambizioni dell’India
L’India si è già proposta nel ruolo di wild card nella produzione globale di zucchero. Se guardiamo alla stagione attuale, ha fornito esportazioni record per 11,2 milioni di tonnellate di zucchero, bilanciando l’offerta globale senza innescare crolli di prezzo presso la Borsa di New York (ICE Futures), con la scarsa produzione del Brasile che, secondo Rabobank, ha compensato il volume offerto al mercato. Gli analisti non ritengono possibile, però, un ripetersi di questa performance da parte dell’India nella stagione 2022-2023, con il consensus che vede le esportazioni indiane di zucchero giungere a mercato in due tranche di cui la prima ammonterebbe a sole 4-5 milioni di tonnellate.
A limitare l’offerta indiana di zucchero potrebbe essere anche il clima: Coda (Hedge Point Global Markets) sottolinea che alcune aree di produzione fondamentali come Maharashtra, Karnataka e Uttar Pradesh soffriranno gli effetti nefasti del meteo. Nell’analisi di HedgePoint, questo scenario avverso potrebbe mettere a repentaglio la prospettiva di una produzione indiana di zucchero di 35,5 milioni di tonnellate nella stagione 2022-2023 (la produzione attuale è quantificata in 35 milioni di tonnellate).
Gli analisti di Rabobank, infine, pongono l’accento sulla produzione di etanolo, che sta guadagnando sempre più appeal: “Anche se in India concluderanno la stagione con più canna da zucchero prodotta – spiega Duff – la destinazione verso l’etanolo sarà maggiore rispetto al raccolto passato”. L’India vuole raggiungere l’obiettivo di miscelare il 12% di biocarburanti nella benzina nel 2023 e il 20% entro il 2025. Attualmente, la percentuale è del 10%. Rabobank prevede, quindi, che la produzione indiana di zucchero sarà in linea con quella della stagione 2021-2022.
Sebbene non incida in modo rilevante sui prezzi internazionali dello zucchero, l’Europa è attentamente monitorata dal mercato, soprattutto dopo che la prolungata siccità e le alte temperature hanno ostacolato la produzione di barbabietola da zucchero. Gli analisti di Hedge Point citano una produzione in calo in Polonia, Germania e Francia, ma affermano che, nonostante tutto, il volume prodotto in questi Paesi è stato superiore alla media degli ultimi cinque anni.
Michael McDougall (Paragon Global) sottolinea come la produzione europea abbia subito una contrazione che va dal 15% al 30% a seconda della zona presa in esame ed evidenzia come ciò abbia indotto un aumento del prezzo dello zucchero bianco a livelli che non si vedevano dalla stagione 2010-2011.
Andy Duff (Rabobank) rimarca la presenza di una forte domanda, evidente nelle dinamiche di prezzo dello zucchero bianco il cui premio risulta superiore a quello dello zucchero grezzo. La performance agricola dei Paesi europei resta un punto interrogativo per il mercato, a causa della difficoltà di accesso ai fertilizzanti per il conflitto in Ucraina.
In dubbio la ripresa del raccolto di canna da zucchero nel Centro-Sud del Brasile. L’aumento previsto della produttività media non si è ancora palesato e, se prima si parlava di 551 milioni di tonnellate di materia prima, oggi gli analisti stimano una produzione di canna da zucchero compresa tra 530 e 540 milioni di tonnellate. Coda (Hedge Pont) ritiene che un recupero sia ancora possibile, soprattutto se le precipitazioni torneranno a essere intense. Hedge Point stima la produzione di zucchero del Brasile tra 34-35 milioni di tonnellate, contro gli attuali 35 milioni.
Un altro elemento che influenzerà la produzione di zucchero del Brasile è il protrarsi, o meno, dell’esenzione dalle tasse federali sui combustibili fossili, che condizionerà la competitività dell’etanolo nel Paese nel 2023. L’esenzione giustifica, infatti, buona parte dell’attuale calo del prezzo alla pompa.
Le prospettive sembrano nettamente migliori nel Sud-Est asiatico, con la produzione zucchero della Thailandia che, secondo gli analisti di Rabobank ed Hedge Point, dovrebbe attestarsi a ridosso dei 12 milioni di tonnellate, in crescita del 20% rispetto alla stagione attuale: un risultato in linea con la proiezione ISO di 12,3 milioni di tonnellate.
“Il volume stimato supera nettamente quello dei raccolti fallimentari delle due stagioni passate – spiega Coda – ma è ancora al di sotto del record della stagione 2017-2018 di 14,8 milioni di tonnellate. Se la produzione della Thailandia dovesse tornare a livelli simili, sarebbero disponibili per l’export almeno 8 milioni di tonnellate di dolcificante”.
Nonostante le previsioni positive, la guerra in Ucraina ha lasciato il segno anche in Thailandia. Michael McDougall afferma che le regioni del Paese dovrebbero avere un raccolto inferiore al previsto a causa della riduzione dell’uso di fertilizzanti, indotta proprio dalla difficoltà di reperimento degli stessi in seguito al conflitto europeo.