Come già approfondito nei precedenti numeri di Vending Magazine, l’avvio della campagna vaccinale ha portato con sè una serie di interrogativi in merito all’obbligatorietà, o meno, della somministrazione del vaccino anti-COVID ai lavoratori dipendenti.
Parte degli interpreti ritiene che il complesso della normativa vigente consentirebbe al datore di lavoro di esigere la vaccinazione in capo ai propri addetti, pena, in ultima istanza, il licenziamento.
A fondamento di questa interpretazione, viene posto, in primis, l’art. 2087 c.c., a mente del quale “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”, nonché l’art. 20 del d.lgs. n. 81/2008 e il combinato disposto dei commi 1 e 2 dell’art. 279, nonché art. 42 del TU.
In particolare, l’art. 279, al secondo comma, afferma che “il datore di lavoro, su conforme parere del medico competente, adotta misure protettive particolari per quei lavoratori per i quali, anche per motivi sanitari individuali, si richiedono misure speciali di protezione, fra le quali:
L’art. 42 stabilisce che “Il datore di lavoro, anche in considerazione di quanto disposto dalla legge 12 marzo 1999, n. 68, in relazione ai giudizi di cui all’articolo 41, comma 6, attua le misure indicate dal medico competente e qualora le stesse prevedano un’inidoneità alla mansione specifica adibisce il lavoratore, ove possibile, a mansioni equivalenti o, in difetto, a mansioni inferiori garantendo il trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza”.
In base a questa impostazione, a fronte del rifiuto del lavoratore alla vaccinazione, il datore di lavoro, previo parere del medico competente, avrebbe la possibilità di ricollocare, se possibile, il lavoratore a mansioni senza contatti con il pubblico e/o con i colleghi, di allontanare temporaneamente lo stesso dal luogo di lavoro, fino a giungere, in base al disposto del sopra menzionato art. 42 del TU, alla risoluzione del rapporto di lavoro.
Altra parte degli interpreti sostiene, invece, che le norme citate a supporto della tesi meno prudenziale non valgano a superare la riserva costituzionale di cui all’art. 32, ai sensi del quale “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”. In assenza di espresse disposizioni normative che obblighino alla vaccinazione, il datore di lavoro – secondo questa tesi contrapposta a quella più “aperturista” – non potrebbe licenziare il lavoratore che rifiutasse l’inoculazione.
In campo legislativo, il recente D.L. n. 44/21, all’art. 4, ha stabilito che “gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario che svolgono la loro attività nelle strutture sanitarie, sociosanitarie e socio-assistenziali, pubbliche e private, nelle farmacie, parafarmacie e negli studi professionali sono obbligati a sottoporsi a vaccinazione gratuita per la prevenzione dell’infezione da SARS-CoV-2. La vaccinazione costituisce requisito essenziale per l’esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative rese dai soggetti obbligati”.
Tale obbligo sussiste fino alla completa attuazione del “Piano strategico nazionale dei vaccini per la prevenzione delle infezioni da SARS-CoV-2” e, comunque, non oltre il 31 dicembre 2021.
L’art. 4 del D.L. n. 44/2021 disciplina, inoltre, la procedura operativa per la concreta operatività della norma, per l’adozione delle misure specifiche in caso di inottemperanza.
La sezione Lavoro del Tribunale di Belluno, con ordinanza n.328 ex art. 669 terdecies c.p.c., del 6 maggio 2021, ha rigettato il reclamo di alcuni lavoratori contro l’ordinanza n. 12 del 19 marzo scorso che aveva respinto la loro azione legale verso le RSA Sersa e Sedico Servizi di Belluno (che avevano preso provvedimenti disciplinari contro gli operatori anti-vaccino), confermando la valorizzazione del dovere del datore di lavoro di tutelare la salute sul luogo di lavoro, ai sensi dell’articolo 2087 del codice civile.
Per quanto concerne invece i lavoratori non appartenenti alle categorie di cui sopra, appare significativo citare il “Protocollo nazionale per la realizzazione dei piani aziendali finalizzati all’attivazione di punti straordinari di vaccinazione anti SARS-CoV-2/Covid-19 nei luoghi di lavoro”, siglato il 6 aprile 2021, che ha riconfermato la base volontaria dell’adesione alla somministrazione del vaccino anti-COVID19, in ossequio al dettato dell’art. 32 della costituzione.
L’attivazione di punti straordinari di vaccinazione presso i luoghi di lavoro, collocantisi nell’ambito del Piano strategico nazionale per la vaccinazione anti-COVID19, consentirà la vaccinazione di tutti i prestatori di lavoratori in azienda che ne abbiano fatto volontariamente richiesta, oltre ai datori di lavoro e ai titolari.
Come detto, anche prima dell’approvazione del recente protocollo per la vaccinazione presso le sedi aziendali, il medico nominato dal datore di lavoro già svolgeva una serie di attività, collaborando con quest’ultimo al fine della prevenzione e protezione dei lavoratori dai rischi di contagio, nonché della predisposizione e attuazione delle misure idonee alla tutela della salute e integrità psico-fisica dei lavoratori.
La vaccinazione “in situ” ha oggi messo in evidenza il tema della riservatezza dei dipendenti.
Al fine di ricevere chiarimenti in ordine al trattamento dei dati personali connessi alla vaccinazioni sui luoghi di lavoro, i datori di lavoro hanno proposto istanza al Garante per la Privacy, il quale ha risposto adottando il provvedimento n. 198 del 13 maggio 2021, con la finalità di migliorare la comprensione delle norme, dei diritti e delle garanzie che devono essere rispettati in occasione del trattamento dei dati personali degli interessati.
In primis, il datore di lavoro ha il divieto di trattamento dei dati personali relativi a tutti gli aspetti connessi alla vaccinazione dei lavoratori.
Il datore di lavoro, qualora vengano utilizzati strumenti informatici al fine di raccogliere informazioni in merito all’adesione dei dipendenti, deve dunque adottare tutte le misure tecniche e organizzative atte a garantire che il trattamento risponda alla normativa di tutela del lavoratore, precludendo l’accesso ai dati al personale degli uffici e demandando a terzi, o al medico aziendale, tale attività di raccolta di dati.
Idonea riservatezza deve essere garantita sia nella fase di somministrazione, sia in quella successiva, evitando “l’ingiustificata circolazione di informazioni nel contesto lavorativo o comportamenti ispirati a mera curiosità”.
Infine, quando la vaccinazione viene eseguita durante l’orario di servizio, il tempo necessario alla procedura di vaccinazione è equiparato a tutti gli effetti all’orario di lavoro, giustificando l’assenza attraverso le ordinarie modalità stabilite nei contratti collettivi nazionali, ovvero attraverso il rilascio di una generica attestazione di prestazione sanitaria, senza ulteriori specificazioni.
A oggi, il legislatore appare, tuttavia, ancora troppo prudente, non avendo assunto una posizione netta, se non per quei lavoratori che operano in ambiti di forte esposizione al rischio specifico di contagio, “galleggiando” in un’incertezza che rischia di generare forti contrasti in sede giudiziale e nella società civile.
Ancora una volta, saranno dunque i Tribunali che affronteranno i temi sopra esposti e indicheranno quale sarà l’orientamento che prevarrà e quali diritti troveranno tutela.
Avv. Eugenio Tristano
info@studiotristano.com